Un mese in Laos

Da Pakse all'arcipelago del Mekong

Se non hai ancora letto l'inizio del nostro viaggio il Laos, vai su Parte 1
Pakse
Il loop del Bolaven Plateau

Partendo da Luang Prabang, atterriamo a Pakse in mattinata, con un aereo della compagnia di bandiera laotiana. É la nostra prima tappa nel sud del Laos e non abbiamo minimamente idea di cosa ci aspetta fino all'ultimo giorno di viaggio. Con 40°C all’esterno, appena arrivati in hotel ci concediamo qualche ora di riposo e una rinfrescante doccia nel primo bagno accessoriato da quando abbiamo lasciato Atene. Nel pomeriggio entriamo nell’ufficio dell'hotel per noleggiare gli scooter. Saranno i nostri compagni di viaggio per i successivi tre giorni di avventure nell'altopiano del Bolaven, l'attrazione principale per cui si passa da Pakse. In quell'ufficio troviamo Roberto, un archeologo italiano che vive in Laos da 20 anni. Sulla grande mappa topografica, appesa dietro la sua scrivania, ci indica tutte le tappe più significative del Bolaven. Chiacchieriamo amichevolmente e le ore passano senza che ce ne rendiamo conto. Roberto ci racconta dei suoi scavi nell’enigmatico sito archeologico del Vat Phu, il tempio della montagna. Ci coinvolge con la sua conoscenza sull'archeologia e la fisica quantistica. La passione con cui ci descrive questo tempio ci incuriosisce molto. Decidiamo che sarebbe stata la nostra ultima tappa prima di lasciare Pakse.
L’indomani, affidiamo i nostri zaini in custodia all’hotel e partiamo con 3 piccoli zaini da escursione. Il Bolaven Plateau è un altopiano che può essere percorso in due modi: percorrendo l'anello piccolo lungo 200 km in 2-3 giorni, oppure avventurandosi lungo l'anello grande, che richiede 5-6 giorni di viaggio ed è lungo 320 km. Decidiamo di andare alla scoperta dell’anello più piccolo dove piantagioni di caffè, tè e tapioca, si susseguono intervallate da numerose cascate. Col sole a picco sopra le nostre teste, attraversiamo la via principale in uscita da Pakse, e ci lasciamo la città alle spalle. Superiamo ponti di legno, distese di banani verdeggianti, piccoli torrenti, campi di terra rossa. Dopo un’ora di viaggio, imbocchiamo una stradina sterrata ed arriviamo alla nostra prima tappa: la piantagione di caffè di Mr. Vieng. Proprio Mr. Vieng in persona ci accompagna a visitare i suoi campi, dove produce anche cotone e tapioca. Camminiamo tra gli alberi di caffè, dove alcuni chicchi sono ancora frutti rossi attaccati ai rami, mentre Mr. Vieng ci spiega le varietà di robusta e arabica. Proseguiamo fino all'area in cui i chicchi vengono tostati ed assumono quel caratteristico colore scuro, che conosciamo tutti. Mr. Vieng è un personaggio interessante, durante la visita ci sorprende con gesti per noi un po’ folli: arrotola una foglia con fiori di caffè e la fuma come fosse un sigaro, poi raccoglie un mucchio di formiche rosse da un albero, le strofina tra le mani e ce le offre come fossero noccioline. Mentre attraversiamo campi di cotone e tapioca, ci racconta che lui e la sua famiglia appartengono alla tribù dei Katu, un gruppo etnico con lingua e tradizioni proprie, che vive al confine tra il sud del Laos e il nord del Vietnam. La comunità si sostiene grazie all'agricoltura e alla filatura del cotone. I Katu mantengono viva una tecnica di tessitura con telai in legno e bambù, che intreccia perline nei loro tradizionali disegni geometrici. Creare un Pa Biang, un piccolo telo, richiede almeno una settimana di lavoro, tessendo circa sei ore al giorno.
Nel secondo giorno del loop, siamo andati alla ricerca del Wat Pa, il grande Buddha immerso nella foresta. Seguendo una strada di terra rossa, ci siamo ritrovati soli in una fitta foresta, dove l'oro della gigantesca statua del Buddha seduto scintillava nel verde circostante. Mentre scattavamo qualche foto, due anziane signore con dei bambini hanno acceso degli incensi, seguendo un rituale, e si sono sedute sulle radici sporgenti degli alberi a contemplare il Buddha. L’atmosfera mistica e surreale di quel luogo immerso nella giungla, ci ha incantati per ore. Solo verso pranzo ci siamo rimessi in moto, diretti alla prima cascata del loop. Le cascate Tad Lo erano tutto l’opposto di quello che immaginavamo. Ancora prima di vederle quello che abbiamo sentito, non era il suono dell'acqua tra le rocce, ma una musica techno degna di un rave. L’acqua scorreva su vasti terrazzamenti che seguivano il corso dell’altopiano; sui lati del fiume file di capanne in bambù erano adibite a chioschi di cibo e bevande. Dopo aver camminato su ponti di legno, guadato il fiume a piedi nudi, abbiamo trovato posto in una delle numerose capanne sull'acqua lungo la riva. Lasciati gli zaini, ci siamo tuffati nel fiume. Mentre ci rinfrescavamo in acqua siamo stati accolti da una famiglia di laotiani: i bambini ci hanno invitato a giocare con loro, ed i genitori ci hanno offerto una Beer Lao. Solo il padre parlava inglese, ma questo non ha impedito loro di accoglierci con ospitalità e gentilezza. Nel tardo pomeriggio, con i colori del tramonto che sfumavano, siamo arrivati a Packsong. La sera abbiamo cenato in un bistrot di cucina tedesco-laotiana, trovando il primo pasto occidentale dopo settimane: una pasta al forno rivisitata che ci è sembrata un piatto gourmet.
L‘ultimo giorno del loop avevamo in programma di vedere quattro cascate prima del nostro ritorno a Pakse, ed eravamo motivati a vederle tutte. Le più vicine sulla mappa erano le cascate Tad Champee. Seguendo il sentiero in discesa immerso nella giungla, siamo arrivati ad un'ampia conca dove terra e sassi scomparivano nella grande piscina ai piedi delle cascate. Senza perdere tempo ci siamo buttati in quell’acqua fresca. Nuotando in direzione delle cascate, ci siamo avvicinati fino a superare la barriera d’acqua, e da sopra una roccia abbiamo avuto modo di ammirare tutta la bellezza di quel luogo puro e incontaminato. Usciti dall’acqua pensavamo di asciugarci e proseguire con la cascata successiva. Era già mezzogiorno quando un gruppo di ragazzi laotiani si è sistemato accanto a noi, iniziando ad organizzare il pranzo. La curiosità era reciproca, senza timidezza uno di loro si avvicina e sorridendo ci mette in mano delle birre, invitandoci ad unirci a loro. Non ce lo facciamo ripetere due volte: da una birra siamo passati a tre, e il pomeriggio è andato avanti così, fra birra e risate. Nonostante la barriera linguistica, sono riusciti a raccontarci un poco delle loro vite, regalandoci un pomeriggio indimenticabile. Ormai era chiaro che avremmo completato il tour delle cascate un’altra volta. Ci siamo rimessi in moto a metà pomeriggio, arrivando al nostro hotel a Pakse in serata, con addosso la terra rossa di tre giorni di viaggio. L’indomani ci restava solo un luogo da visitare: il Vat Phu. Dopo un'ora di viaggio tra giungla, risaie e splendidi scorci sul Mekong, siamo arrivati al tempio della montagna di Shiva. La terra dorata contrastava con le mura scure del complesso, al centro un ripido sentiero in salita, con gradini dalle forme irregolari, conduceva al tempio. Nel luogo dove, prima ancora dei famosi templi di Angkor in Cambogia, si venerava Shiva ora si può ammirare una grande statua del Buddha. Mentre guardavamo il tempio e i ruderi ricoperti dalla giungla, quella che respiravamo era un'aria che sapeva di antichi riti e mistero. Nessun altro luogo in Laos ci ha trasmesso un’atmosfera così mistica. Prima di partire abbracciamo Roberto e ci salutiamo con affetto. Ci saremmo sentiti più volte per altri consigli nel resto dei nostri mesi in viaggio. Insieme alle ultime raccomandazioni Roberto aggiunge che a Don Det vive un cugino della moglie, molto bravo a fare le pizze, magari l’avremmo incontrato, si chiama Tiu.
Don Det e le 4000 Isole
L'arcipelago del Mekong

‘E quindi cosa vi è piaciuto del Laos?’. La sera prima di lasciare il paese, ci siamo ritrovati a chiacchierare con un gruppo di ragazzi laotiani, quando uno di loro ci ha fatto questa domanda. La nostra risposta è stata così rapida da sorprendere tutti, ma non avevamo bisogno di riflettere. Era stato un viaggio incredibile, un’avventura di cui avremmo conservato ogni dettaglio. Eravamo cambiati e l’avevamo capito proprio in quei giorni a Don Det. Ma prima di farvi leggere la risposta, partiamo dall’inizio. Poco prima di lasciare Pakse abbiamo scoperto che durante i festeggiamenti del Pi Mai Lao, il capodanno laotiano che si celebra a metà aprile, i trasporti per lasciare il paese erano sospesi. Saremmo dovuti rimanere più del previsto, attraversando il confine l’ultimo giorno di visto disponibile. Dopo un momento di panico abbiamo pensato che in fondo era tutto il viaggio che non programmavamo nulla ed era andato tutto alla grande. Avremmo lasciato fare al caso anche stavolta. Durante il tragitto in van da Pakse al porto di Nakasong, abbiamo avuto un assaggio dell’atmosfera che ci aspettava, chiacchierando con Lance e Donna, una coppia di musicisti di Nashville che vivono a Don Det da 15 anni e si godono la pensione. Tra una domanda e l’altra ci raccontano di quelle isole un po’ misteriose al confine con la Cambogia, la cui storia è un intreccio tra guerre, credenze popolari e sciamani. Cominciamo a renderci conto che la nostra ultima tappa era davvero singolare, e mentre salivamo sulla barca, non avevamo la minima idea di dove stavamo andando a finire i nostri ultimi giorni in Laos. Si Phan Don, così si chiamano le 4.000 isole in laotiano, fanno parte della provincia di Champasak. L'arcipelago, situato in uno dei punti più larghi del Mekong, è composto da isole diverse per forme e dimensioni. Si parla di 4.000 isole, ma per via dell’innalzamento del fiume durante la stagione piovosa, solo 4 di queste sono abitate tutto l’anno: Don Khong, Don Det, Don Khon e Don Som.
La barca attraversava il fiume con calma, dandoci tutto il tempo per osservare sbalorditi il paesaggio di atolli e acque verdi. Mettiamo piede nel piccolo porticciolo e ci incamminiamo verso quella che sarà la nostra base per i successivi 8 giorni: una palafitta di legno scuro con un ampio balcone esterno, arredato con delle amache dove rilassarsi e godersi il panorama. Posiamo gli zaini e ci guardiamo increduli: ma dove cavolo eravamo finiti? Sembrava l'isola dei bimbi sperduti di Peter Pan. Noleggiamo immediatamente delle bici dalla signora del bungalow, saliamo in sella e ci facciamo il primo giro dell’isola. La luce rossa del tramonto si poggiava sul sentiero a volte sterrato e sulle case di legno. Le barche dei pescatori galleggiavano sulla riva, i bambini e gli animali scorrazzavano liberi tra i banani. Mentre pedalavamo in quell’atmosfera magica, sentivamo che quei giorni sarebbero stati unici. Pur non essendo le più grandi dell’arcipelago, Don Det e Don Khon, le isole gemelle, sono però le più selvagge e popolari. Basta attraversare il ponte francese e ci si ritrova a Don Khon: un altro paradiso di spiagge nascoste, cascate terrazzate e foreste. C’era molto da vedere oltre ad oziare sulla nostra amaca, insieme a gatti e cagnolini che venivano in cerca di coccole. Le giornate non iniziavano senza una colazione con vista sul Mekong. Dopo pochi giorni avevamo già i nostri posti preferiti: il Reggae Bar, vicino al porticciolo, e il Mango Bar, sull'isoletta di fronte al nostro bungalow. Al Reggae Bar Chris ed altri ragazzi occidentali avevano creato un’atmosfera amichevole e accogliente. Una vera chicca era la piattaforma sospesa da cui ci si tuffava dritti dritti nel Mekong: un'ottima soluzione per svegliarci in fretta la mattina. E poi avevamo scoperto due cose che lo rendevano un posto speciale: le pizze erano buonissime e a prepararle era Tiu, il proprietario. Vi ricordate? Il cugino di Roberto, l’archeologo incontrato a Pakse. Con Tiu e i suoi amici abbiamo parlato dei nostri mondi così diversi. Uno degli aneddoti che ha fatto sorridere tutti, è stato scoprire che i laotiani si coprivano dal sole, perfino con guanti, per non apparire troppo abbronzati, mentre noi occidentali, invece, paghiamo e non poco per l'esatto opposto. Discorsi come questo, ma anche più profondi, hanno arricchito le nostre serate, tra una Beer Lao e una granita lime e menta.
Il tempo di ambientarci e ci siamo ritrovati nel mezzo dei festeggiamenti del Pi Mai Lao. Sapevamo soltanto che per quattro giorni le attività commerciali sarebbero rimaste in gran parte chiuse e che il passatempo principale era lanciarsi gavettoni. Con oltre 40°C, in fondo, non ci dispiaceva l'idea di essere bersagliati da secchiate d’acqua. Il primo giorno tutta la comunità si è riunita al tempio buddhista per un rito di purificazione in vista del nuovo anno. Incuriositi, ci siamo uniti anche noi. Varcata la soglia del tempio siamo stati sorpresi da un’atmosfera di festa e devozione. Famiglie sedute a terra chiacchieravano mentre condividevano il cibo, bambini con pistole ad acqua si rincorrevano, ovunque c’erano secchi d’acqua profumata con fiori e foglie. All’improvviso dal tempio iniziano a uscire uomini e monaci con in mano statue del Buddha: la cerimonia era iniziata. Ogni famiglia possedeva una o più statue che lavava con cura usando l’acqua profumata. Poi, tutte le statue sono state adagiate su un grande tavolo e nuovamente purificate con altra acqua profumata. Tutti partecipavano, perfino i bambini, che si infilavano sotto il tavolo per raccogliere l’acqua purificata e versarla nuovamente sulle statue. Quell’acqua, simbolo di buon auspicio, veniva poi gettata sui presenti e per terra, segnando la fine della stagione secca e l’inizio del nuovo anno. Concluso il rituale, le statue sono state riportate al loro posto dentro al tempio. Osservavamo con rispetto ogni passaggio: l’atmosfera era di festa e tutti si divertivano, ma si vedeva che quel rituale era molto sentito spiritualmente dalla comunità. La giornata ci aveva già regalato dei ricordi indimenticabili, ma ci avrebbe sorpreso ancora. Nel pomeriggio decidiamo di esplorare la vicina isola di Don Khon. Attraversiamo il ponte francese, uno dei punti panoramici migliori per ammirare il Mekong, e ci dirigiamo verso le cascate Li Phi. Dalla strada principale imbocchiamo un sentiero sterrato fino a ritrovarci in una foresta. Stava quasi per tramontare, sfumature rosso-viola coloravano il cielo. Seguendo il fragore dell’acqua, ci siamo trovati di fronte a rapide di una potenza disarmante, che scorrevano impetuose su rocce frastagliate. Eravamo rapiti dal fascino di quella scena: le cascate Li Phi erano imponenti. Secondo la credenza popolare e della tradizione animista, queste acque intrappolano gli spiriti delle persone e degli animali morti lungo il Mekong, non consentendo loro di raggiungere l'aldilà. Le cascate sono viste come luogo di passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Per questo motivo nessun laotiano osa bagnarsi qui: il nome stesso delle cascate significa “trappola per gli spiriti”.
Il giorno dopo siamo tornati a Don Khon per esplorare le cascate Kohn Pa Soi. Questa volta le indicazioni non erano chiarissime, dopo aver pedalato sulla sabbia, siamo entrati nella foresta. Sentivamo il rumore dell’acqua avvicinarsi. Seguendo la mappa ci siamo fermati davanti a un ponte sospeso, su cui erano rimaste solo poche assi di legno, che i pescatori della zona attraversavano per recuperare le reti sul fiume. Uno alla volta, un piede dopo l’altro, attraversiamo il ponte. L’acqua sotto di noi scorreva veloce sulle rocce scure. Arrivati sull’altra sponda, non c'erano più indicazioni, nemmeno sulla mappa. Seguendo dei sentieri appena accennati, ci siamo ritrovati davanti ad ampi terrazzamenti modellati dalla natura, dove l'acqua delle cascate si raccoglieva in conche. Andando avanti, la foresta si faceva sempre più impervia mentre la luce del sole si attenuava. Il tramonto si stava avvicinando. Decidiamo quindi di tornare indietro e proseguire verso l’antico porto francese di Hang Khon, la punta estrema del Laos. Eravamo nel pieno dei festeggiamenti per il capodanno, lungo la strada ci aspettavano bambini pronti a lanciarci gavettoni e spalmarci creme colorate. Completamente fradici siamo passati in mezzo a foreste e risaie, arrivando finalmente al belvedere di Hang Khon, un’ampia terrazza sopraelevata da cui si apriva una vista spettacolare sul Mekong e sulle coste della Cambogia. La breve distanza tra i due paesi quasi si perdeva nell’immensità della portata di quell’acqua verde-azzurra. I festeggiamenti per il Pi Mai Lao volgevano al termine e con loro anche la nostra avventura. L’ultima sera, passando davanti al Reggae Bar per salutare Tiu, veniamo invitati a bere una birra insieme ai suoi amici, e noi accettiamo con piacere. Ci presentiamo a tutti, e subito ecco che uno degli amici esce fuori la domanda: ‘E quindi cosa vi è piaciuto del Laos?’. Avevamo risposto ‘le persone’ perché erano state davvero la parte più significativa di questa esperienza. Dagli host che ci hanno accolto con calore, agli sconosciuti che ci hanno offerto birre senza esitazione, fino ai viaggiatori come noi, con cui in pochi momenti condivisi abbiamo gettato le basi per grandi amicizie. In un mese avevamo visto tutta la luce che emanava la perla del sud-est asiatico, e ce n’eravamo innamorati. La mattina dell’ultimo giorno, seduti sulla barca, ci siamo girati a salutare Don Det, che piano piano rimpiccioliva tra le acque verdi e il cielo azzurro, con la promessa che non sarebbe passato troppo tempo prima di rivederci ancora.
Condividere esperienze di viaggi, per il puro piacere di confrontarsi, crea collegamenti fra le persone. Ci piace pensare che, raccontando le nostre esperienze, possiate innamorarvi di questi luoghi, che poi è esattamente quello che è successo a noi. Prima di pianificare i nostri mesi in sud-est asiatico, o possiamo ben dire, prima ancora di conoscere questo paese, fra le mete in cima alla nostra lista c'erano l'Indonesia, il Vietnam, la Cambogia, la Thailandia. Insomma tutte le mete mainstream di questa parte del mondo. Poi i nostri cari amici Alex e Deeniss ci hanno parlato del Laos con così tanto entusiasmo da farci cambiare idea sui nostri piani. Erano convinti che ci avrebbe stupito, e come avete immaginato, non si sbagliavano affatto.
Questo piccolo dietro le quinte per mostrarvi lo spirito con cui stiamo coltivando il progetto Thefolli.
Alejandro e Deeniss - Portogallo 2023 

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